- Ciao Tommy, per presentarti ai nostri lettori ti chiediamo di illustrarci la tua mappa personale con tutte le città che hanno segnato la tua storia.
Interessante. Sono nato nella città di Abeokuta in Nigeria, a due anni mi sono trasferito in Italia in Val Camonica. Ricordo che fino a sei anni ho vissuto in un comune che si chiama Artogne poi mi sono trasferito a Castiglione dello Stiviere, ogni tanto i miei genitori mi mandavano in Inghilterra dai miei parenti. Ho vissuto a Castiglione fino ai 15/16 anni quando ho fatto l’anno di scambio negli Stati Uniti, ho frequentato una High School. Credo che quell’anno mi abbia totalmente cambiato la vita perché mi ha messo veramente in gioco, cioè a 16 anni vivere in un paese diverso, parlare una lingua diversa lontano dai tuoi amici e familiari. Dopo quell’esperienza lì sono tornato in Italia per finire il liceo e poi ho vissuto in Inghilterra per tre anni dove ho fatto l’università. Dopo sono tornato in Italia e vabbè ho fatto vari viaggi, ho fatto anche Pechino Express quindi ho visitato vari paesi dell’Africa e vari paesi del mondo, però come turista. Adesso sto stabilmente Milano.
- Come spesso ti piace ricordare, tu sei afro-italiano, un italiano di seconda generazione. Oggi nel panorama musicale ci sono tanti esponenti della generazione Z che sono afro-discendenti. Che differenze noti tra la tua generazione e la loro?
Una cosa che posso dire degli artisti più giovani è che apprezzo e da un certo punto di vista quasi invidio la loro naturalezza nel raccontare la propria storia senza filtri. Ho la sensazione che nella mia generazione, per varie ragioni, era quasi una cosa inedita raccontarsi per quello che si è, parlare delle proprie tradizioni africane, delle origini.
Fanno pezzi in cui mettono le loro lingue, dipingendo un’Italia molto più colorata rispetto a quando ero io un appassionato di Hip-Hop, in cui a cantare erano sempre i Luigi Giovanni Marco Francesco mentre ora ci sono anche i Mohammed Assaid…ci sono tutti questi ragazzi qua che portano storie nuove che magari il panorama musicale non era abituato a sentire.
Poi al di là di questo c’è anche tutto il discorso della violenza ma io voglio sperare in un mondo in cui, finita quest’era di eccitazione per la violenza, diventi più normale raccontarsi per quello che si è senza storie strappa prima pagina dei giornali.
- Il disco ha un’anima spiccatamente afro, qual è stata la tua ispirazione?
Mi piace sempre pensare che la musica di qualsiasi artista sia un insieme delle cose che ascolta; quindi, da una parte io ho sempre ascoltato il rap italiano, che sia Fabri Fibra, Club Dogo ma anche la roba nuova, tipo Ghali, dall’altra parte, quello che è una cosa un po’ inedita, è che ultimamente ho provato a dare più spazio alle mie origini, alle tradizioni quindi ascolto molta musica Afro beats come Burna Boy o Wizkid.
- Questo disco è uscito da indipendente mentre quello precedente era sotto major. Sono passati cinque anni, qual è il tuo rapporto con l’industria discografica e col mercato?
Non mi sento così accolto a braccia aperte, in questo ambiente non è valorizzata la gente che dice quello che pensa. Diciamo che nella scena musicale mi sento spesso come quando magari tu arrivi in una classe nuova e ci sono quelli che sono già amici tra loro perché sono cresciuti nello stesso paese, vengono dalla stessa città, hanno i genitori amici e fanno pressione per non farti giocare con loro. Poi mi piace pensare che tutte le volte che nella vita mi sono trovato in questa situazione ho trovato il modo e sono riuscito ad emergere positivamente, però sono appunto in questa fase qua in cui sono il nuovo della classe.
- Hai collaborato con Fabri Fibra e Nerone, due nomi che contano nel rap game, che rapporto hai con la scena?
Nel mio caso i featuring sono partiti da persone per cui provo una certa stima. Però vedendo anche i numeri che ha fatto il brano con Nerone capisco perché a volte è un meccanismo il discorso del featuring, perché i ragazzi sono ormai abituati ad eccitarsi a sentire certi nomi insieme.
La seconda fase del mio percorso artistico è cominciata nel momento in cui ho smesso di seguire sui social gran parte degli artisti italiani, non per cattiveria però mi sono reso conto che è difficile non farsi influenzare e non farsi trasportare da un certo tipo di sound, di musica e di abitudini. Quando mi sono detto, ok ritaglio il mio prato verde, il mio spazio con i miei amici, le persone che hanno le mie stesse vibes, questo mi ha dato la possibilità di esprimermi ancora più liberamente e di entrare in contatto con chi sono veramente. In questa città, abito a Milano da circa cinque anni, a volte è difficile non farsi risucchiare dalle abitudini e rimanere la persona che sei. Secondo me la strategia più intelligente per riuscirci è proprio limitarsi, io ho fatto un piccolo ritorno alle mie origini, un viaggio introspettivo nel quale ho cercato di essere me stesso al 100% lontano dai cliché e dai luoghi comuni della scena rap in generale.
- Nell’album precedente trattavi molte tematiche sociali e politiche nei tuoi testi, mentre “Summer of love” è più un album sentimentale, anche se emergono comunque storie di emarginazione tutt’altro che leggere. Secondo te ha senso parlare di musica impegnata?
Grazie. A volte credo che la questione dell’impegno sociale sia quasi una gabbia che mi è stata messa addosso per troppo tempo. Mi spiego meglio. Io sono un artista che dice quello che pensa, questo vuol dire che se mi è accaduto nella vita qualcosa di ingiusto, lo racconto nelle mie canzoni.
Molte cose che io dico possono passare per impegnate però quando dico “Fanculo i razzisti, quelli della Lega, ogni 2 giugno su quella bandiera”, dico una cosa che avrebbe potuto dire un qualsiasi altro ragazzo, di conseguenza mi dispiace se i giornalisti vedono in me soltanto quella cosa lì. Dopo un po’ era fastidioso perché io voglio fare la mia musica, raccontare la mia storia. In altri paesi è normale manifestare la propria posizione, ma se ci pensi anche in Italia negli anni ‘70 e ’80, siamo arrivati in questa fase di “sole cuore amore e gang gang ti sparo” che in questo contesto musicale diventa quasi rivoluzionario dire qualcosa. Mi piace pensare che un artista è qualcuno che vede la società e la commenta, la racconta per i posteri dicendo qualcosa di profondo. La sua analisi della società. Io spero che un giorno l’Italia impari a parlare dei ragazzi di seconda generazione al di là dei cliché, cioè di ragazzi con storie di normalità.
- Sempre rimanendo su questo tema dei cliché, possiamo dire che Ricci è un’ode alla bellezza africana?
In realtà la prima persona che mi ha ispirato la canzone Ricci è stata la mia prima ragazza italiana perché lei aveva i capelli mossi e passava tante ore a lisciarseli con la piastra. Io ogni tanto quando la vedevo le dicevo che era bellissima con i suoi capelli mossi ma lei si frustrava perché quando provava a lisciarseli non le venivano lisci come alle altre persone. Ai tempi avrei voluto avere molto più coraggio per farle capire che era splendida con i suoi ricci e che lo standard di bellezza dei capelli liscia lascia il tempo che trova. Paradossalmente anch’io in un periodo della mia vita mi lisciavo i capelli, cioè con la crema lisciante, chimica, che poi ti rovinava i capelli…
Mi auguro di vivere in un mondo un giorno in cui anche persone come Beyoncé, Cardi B o Michelle Obama mostreranno i loro ricci, perché per ora non accade così spesso.
- Siamo in un periodo storico in cui c’è molta attenzione al tema delle disuguaglianze tanto che si rischia quasi di mercificare una battaglia così importante, penso alla condotta politically correct di abolire certe parole dalla conversazione. Dove ti sembra che stia andando la società?
Quello che sta accadendo in questo periodo storico è che certe persone che in passato non hanno mai avuto la possibilità di parlare stanno facendo sentire la loro e le persone che sono sempre state legittimate a poter dire tutto quello che vogliono si sentono privati di certi privilegi.
Io non mi dimenticherò mai un giorno che scherzavo con un amico youtuber che non ha i capelli e io facevo una battuta sul fatto che lui era pelato. Un giorno mi ha guardato negli occhi e mi ha detto “Sappi che io lo trovo profondamente offensivo questo perché per me perdere i capelli in tenera è stato veramente un trauma, preferirei che tu non ci scherzassi”.
Ogni tanto credo che si debba avere il coraggio di ascoltare seriamente le persone e i loro traumi. La verità per cui io non voglio sentire certe parole è che per me sono legate ai traumi di gente che mi umiliava, che magari mi picchiava e prima utilizzava la N word, è legato al fatto che i miei genitori avevano un negozio e qualcuno un giorno aveva disegnato croci celtiche e quando siamo dovuti andare ad aprirlo c’erano le peggiori frasi. Quindi quando tu dici certe parole risvegli certi traumi e a volte non mi so spiegare come per certa gente sia così difficile privarsene. Io stesso ne sono un testimone, nel senso che ho vissuto questa cosa qua sulla mia pelle anche dall’altra parte, se riascolto certe canzoni che scrivevo dieci anni fa dicevo chiaramente cose omofobe ma senza rendermene conto però crescendo, conoscendo un certo tipo di persone, affrontando certi tipi di conversazioni, ho realizzato quelle cose non sono belle da dire.
- Una curiosità, nella canzone “Powa” dici “il motto è owo ni koko”, che cosa vuol dire?
È divertente che l’hai chiesto perché proprio oggi ho sentito questa stessa frase nella canzone di Davido, un altro artista nigeriano.
Io sono un nigeriano e i nigeriani hanno uno strano attaccamento ai soldi, persino mia mamma ogni tanto mi dice, va bene Tommy il tuo sogno ma porta a casa i soldi. Vuol dire “i soldi sono ciò che conta” quindi bello avere il sogno, bello avere ambizioni però concretizziamo.
Intervista a cura di Giuditta Cignitti!